
Furio Colombo
Due questioni hanno tormentato il mondo del lavoro e quello dei media italiani in questi giorni. Uno è la celebre contesa intorno alla sopravvivenza dell’Alitalia, azienda di dimensioni internazionali detta «compagnia di bandiera», di cui si sono occupati, giorno e notte tutti i politici, tutti i media italiani e un po’ i media del mondo. Mentre scriviamo l’esito è ancora sospeso, anche se è innegabile che uno scatto di vita alla creatura già semi-morta è stata data dall’incontro Epifani-Colaninno,non per iniziativa del Primo ministro in cura a Todi, ma del capo della opposizione, vivamente vilipeso da Berlusconi per essersi intromesso. L’altro è la improvvisa totale chiusura di un grande ospedale, unico nel vecchio centro di Roma e unico per il livello di alcune strutture e settori clinici appena costosamente rinnovati e comunque di qualità europea (ortopedia, nefrologia, medicina di rianimazione).
È una storia locale ma esemplare. Dove, quando è stata mai chiusa, con notifica di meno di due mesi una struttura urbanisticamente collocata nei secoli nel centro del centro storico di una città, disperdendone storia e patrimonio ma perdendo anche i fondi del vasto rinnovamento appena finito? E perché - in questo è il simbolo, che riguarda tutto il Paese, non solo Roma - dovrebbe farlo un governo di sinistra (è di sinistra la Regione Lazio) aprendo uno spazio prezioso e vuoto alle bande dei palazzinari?
Una cosa hanno in comune due storie tanto diverse: il lavoro. In tutti e due i casi (con tristezza si potrebbe dire: visti da destra e visti da sinistra) tutta l’attenzione politica e giornalistica si è concentrata sulla parte impresa (quanto vale, a quanto si può comprare o vendere, quanto frutta l’una decisione o l’altra) e niente o quasi niente sul lavoro, il valore del lavoro. Ma anche del lavoro come componente essenziale dell’impresa. Per esempio, dei lavoratori dell’ospedale è stato detto che le persone saranno sparpagliate come le macchine. Ma, a differenza delle macchine, le persone andranno, più o meno a caso, dove li prendono e come si può. Ringrazino il cielo di non essere licenziati. Quanto ai lavoratori dell’Alitalia, alcuni giornali hanno già definito “aquile spennate” i piloti che hanno deciso di cedere parte dei loro stipendi. Ma tutti sono stati visti, un po’ da tutti e certo dall’universo mediatico unificato, come guastafeste disposti a rendere impossibili convenienti accordi già raggiunti.
Convenienti per chi? È la domanda mai posta e la risposta mai pervenuta. Ma restiamo un momento con Alitalia.
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Raramente ci si sente in debito con la televisione. Questa volta devo dire che sono grato ad «Annozero» per avere impegnato tutte le sue risorse e la capacità giornalistica (arricchita dall’arrivo di Corrado Formigli) per restituire dignità al lavoro. Mi rendo conto, «Annozero» dura due ore mentre una continua, accanita, sarcastica denigrazione del lavoro dei dipendenti di quella impresa disastrata è continuata per settimane, dal governo agli editorialisti compatti, dalle fonti meno credibili a molte voci competenti, a cui si è aggiunta qualche autorevole voce del Partito Democratico, come quando Enrico Letta ha descritto l’impegno senza tregua di Epifani di non abbandonare la difesa del lavoratori «l’errore del secolo...». Giudicando dal seguito della vicenda si direbbe che l’errore (almeno l’errore della settimana) è stato di Enrico Letta e della sua dichiarazione leggera e scorporata dal peso drammatico dei fatti.
Il peso dei fatti si concentra, come se fosse un’evidenza processuale, su una piccola folla di assistenti di volo che - nelle riprese televisive - sembrava festeggiare l’annuncio del ritiro della cordata Cai dalla trattativa. Come in una rapina in banca, è stata identificata la «hostess con le braccia alzate», Maruska Piredda. «Annozero» le ha dato la parola, sostituendo volti veri e storie umane alla indecorosa narrazione dei media, seguita da concitati corsivi di disprezzo e condanna che accreditavano due versioni: parassiti che guadagnano troppo e non accettano anche minimi sacrifici sulla lauta paga; fannulloni che non lavorano e si indignano, mentre l’azienda muore, di un ritocco all’orario. Maruska Piredda ha potuto spiegare agli spettatori di «Annozero» che la proposta era dimezzare la paga e allungare (quasi a volontà chiamando i dipendenti anche nel tempo libero e di riposo) l’orario di lavoro, come se si trattasse di ridurre i consumi e aumentare le prestazioni di una macchina e non dell’orgoglio, dei nervi e della fatica di una persona. Moltiplicate tutto ciò per le vite e i nervi delle assistenti di volo di quella ripresa televisiva e avrete notizie vere del modo drammatico in cui hanno vissuto in pubblico la lunghissima trattativa.
La riduzione a stupidi manichini che fanno festa al «tanto peggio tanto meglio» non è soltanto un falso. È la rappresentazione di un pregiudizio contro il lavoro che si cerca di diffondere in modo da scatenare una guerra tra poveri. Squallido progetto che, tra i lavoratori dell’Alitalia maltrattati e in attesa, è quasi riuscito. Ognuno, con i suoi privilegi (povere conquiste risibili in un mondo di super ricchezze e di super manager) diventa «la casta» dell’altro. E in questo mondo frantumato è facile separare e frantumare anche i sindacati e lavoratori.
Il sindacato più tenace nel resistere al tavolo delle trattative, la Cgil, è stato descritto come delinquenziale e pericoloso, come una inaudita mancanza di rispetto verso la controparte che è sempre rimasta in una rispettosa penombra.
Qualcuno ha mai detto all’avvocato Buongiorno che è riprovevole la tenacia con cui difende i suoi imputati? Intanto i giornali italiani si stavano divertendo con la «la limousine dei piloti» (ovvero con l’auto di servizio che li preleva di giorno o di notte per andare all’aeroporto) come se, in qualsiasi parte del mondo civile, i piloti dei grandi aerei e dei viaggi che durano un giorno o una notte, facessero meglio a destreggiarsi con bravura nel traffico cittadino prima di prendersi la responsabilità in volo di quattrocento passeggeri per decine di ore.
Avrete notato che nessun bravo giornalista investigativo, impegnato a cogliere all’istante la frase incriminata di un dipendente Alitalia sull’orlo di una crisi di nervi, ci ha mai riproposto le storie dei manager che, nei decenni, con paghe infinite e la partecipazione straordinaria della politica, hanno portato l’azienda Alitalia sempre più in basso. E nessuno - tranne piloti e assistenti di volo esausti - ci ha ricordato la lunga lotta Fiumicino-Malpensa, leghisti contro «Roma ladrona», costato molto più della paghe dei dipendenti «lagnosi» prima dei tagli risanatori.
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Allo stesso modo il San Giacomo. D’accordo, è solo un ospedale di Roma, ma alle spalle della chiusura improvvisa di un antico, eccellente ospedale, si intravede l’ombra di una immensa operazione immobiliare. Esattamente il tipo di operazione immobiliare che da decenni ha inquinato l’Italia. Se conoscete la città e la vastità dell’immobile, prima ancora di ricordare lo sperpero di bravura umana e di civiltà ospedaliera, che nessuno calcola, vi viene in mente l’indimenticabile film «Le mani sulla città» di Francesco Rosi. Dunque siamo di fronte a un fatto grave ed esemplare che, come ai tempi de «Le mani sulla città» riguarda una città che si chiama Italia.
Qualcosa non funziona nelle notizie che vengono date al pubblico. Non funziona l’avere migliorato in modo eccellente e con spese altissime un ospedale per poi chiuderlo all’improvviso. Non funziona il teorizzare «il luogo sbagliato» dopo sette secoli, in una città come Roma dove tutto è nel «luogo sbagliato» ma diventa giusto e accettato per la forza del tempo e perché la città è venuta modellandosi intorno ai suoi edifici unici al mondo.
Qualcosa non torna quando vi dicono che «le attrezzature mediche verranno ridistribuite» fra i vari ospedali di Roma, come se le sofisticatissime apparecchiature, portate e adattate nel prezioso ma non facile contenitore San Giacomo (con due Chiese in vendita?) fossero i mobili della nonna, qui e due poltrone più piccole, di là il divano più grande.
Qualcosa non torna quando ripetono: «Ma noi non chiudiamo ospedali, noi tagliamo posti letto». Qui i posti letto tagliati sono il cento per cento. Infatti non si sta spezzettando il San Giacomo, il famoso «spezzatino» che è il grande incubo nelle cessioni di impresa. L’intero ospedale viene eliminato e basta. E questo fatto dovrebbe allarmare l’opinione pubblica perché non è uno sgradevole evento romano,è un fatto italiano. E’ un drammatico precedente. Dice che si può cancellare una intera istituzione sanitaria pubblica persino se sono contrari tutti i suoi medici, tutto il suo personale, tutti i suoi pazienti, tutti i cittadini. Colpisce l’indifferenza della politica per questo universo umano che dissente.
Colpisce l’indifferenza verso il lavoro di una parte politica che non è una cordata di imprenditori (quelli, se mai, caleranno sull’edificio vuoto) ma un partito di sinistra.
Di nuovo, in questo quadro allarmante, il lavoro è un disturbo, la competenza un intralcio, il reclamo di ciò è stato compiuto e del come è stato compiuto è una fastidiosa vanteria. Far presente che quella di un ospedale che va bene ed è amato (amato!) dagli utenti è una comunità che lavora bene perché lavora insieme e non si può spezzare e ridistribuire per piccole parti, è una affermazione che viene vista come un antipatico ostacolo.
La grande concessione non è: rispetto il tuo lavoro, lo apprezzo e faccio di tutto perché tu possa continuare. La grande concessione è: smettila di vantare le cose buone che stavi facendo in questa comunità. La comunità adesso chiude per ragioni che non tocca a voi discutere. Voi sarete mandati via, e secondo quel tanto di disponibile, un po’ di qua e un po’ di là. Ma non sarete licenziati, non vi basta?
Il lavoro perde il suo senso, la sua dignità, quel tanto di missione che dà un valore alle tante ore di ogni giornata. La lezione è tremenda e invita al cinismo togliendo valore a quello che fai.
È la seconda triste lezione sullo stato del lavoro oggi in Italia. Il meglio che ti può capitare è di non essere licenziato subito. È un punto molto basso di quella, che una volta, chiamavamo «civiltà».
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